A1
Lavoro per una cooperativa di agricoltori romagnoli. Quattro volte la settimana faccio avanti e indietro lungo l’Autostrada del Sole con il camion della ditta, per portare cassette di frutta e verdura ai supermercati di una piccola catena. Non vi posso dire quale (sembrerebbe pubblicità), però la merce è buona davvero, coltivata senza pesticidi né altre porcherie. Non mi dispiace affatto guidare il camion, anzi: questo è un lavoro che ho scelto perché mi lascia tempo e non mi manda in pappa il cervello con grosse responsabilità e obiettivi da raggiungere. In realtà… io sono un compositore, e forse riuscirò a fare uscire il mio Cd l’anno prossimo. Che musica faccio? Be’, definirla è difficile. Minimalista? Sperimentale? Tipo Brian Eno?
Ecco, Lui per me è Dio, anche se non voglio proprio imitarlo. Il mio genere è un po’ meno rarefatto, a volte quasi melodico. Ma non troppo. Il disco conterrà cinque brani da circa dieci minuti ciascuno. Più uno di pochi secondi… una specie di commiato. S’intitolerà A1, come l’autostrada su cui vado avanti e indietro. Perché viaggiando nascono tante idee, spunti a non finire. La cabina è il guscio da cui guardo e vedo e sento il mondo. Uno come me, che si fa ipnotizzare dalla forma di una nuvola o da quella di un fiocco di neve che viene a depositarsi sul tergicristallo, che cosa volete che faccia? O scrive o dipinge o compone. Altrimenti scoppia di emozioni. E non parlo solo di tristezza o felicità, difficili da contenere per chiunque. Anche guardare negli occhi un neonato o un vecchio mi provoca turbamenti che non saprei descrivere se non con le note.
Ecco perché la musica.
A scuola dicevano tante cose su di me. Per esempio che non sapevo integrarmi. E perché avrei dovuto? Ascoltavo musica ogni volta che potevo e già in prima media componevo piccoli pezzi; che poi suonavo su una tastierina giocattolo. La ricordo benissimo: aveva solo due ottave, ma per me era il paradiso. Una volta ho scritto un breve pezzo per la mia professoressa di Lettere e gliel’ho infilato nel registro. La soave Rachetti deve aver parlato con l’insegnante di musica perché, durante la lezione successiva, lui l’ha eseguito. Così, senza preavviso. Ha detto solo: «Ragazzi, ascoltate questo. È di un giovanissimo compositore che diventerà assai bravo». Si è messo alla tastiera (con tutt’e quattro le ottave) e ha interpretato il mio piccolo, ingenuo minuetto per sola mano destra, arricchendolo con la sinistra. Le due mani si sono rincorse tra soggetti e imitazioni per quasi due minuti, componendo dal nulla una specie di fuga tanto più toccante quanto lontana dall’originale.
E io, inconsapevole causa di tanta bellezza, non sono riuscito a trattenerla. Così ho chiesto il permesso di uscire, mi sono infilato in bagno e ho pianto tutte le mie lacrime seduto sul cesso, finché la bidella è venuta a chiedermi se stessi bene. Mi sono sempre chiesto che ne sarebbe stato di me, senza la musica. E senza Daniela naturalmente, che ha tutte le armonie del mio universo conosciuto e sconosciuto. Con lei è un allegro continuo dai banchi del liceo. Con dei magici crescendo qua e là. L’amore, in qualche caso fortunato, non si stanca, e Daniela continua a essere la mia isola, il mio spartito, la mia compagna di giochi. L’ispirazione, la necessità; e non riesco ad aggiungere altro perché sto già sorridendo e sorridere mi porta via.
Ecco.
Anche quel giorno stavo percorrendo l’A1 e, come sempre, mi dedicavo al mio passatempo preferito: sbirciare dalla postazione sopraelevata l’interno delle automobili che mi superano. Si impara molto entrando di soppiatto nell’abitacolo di un’automobile. La gente fa cose strane, oltre a mettersi le dita nel naso. Una volta ho visto una donna che si depilava le gambe con la ceretta. Anche le altre passeggere erano ragazze. Dalla mia prospettiva si vede un po’ di sguincio, ma è sufficiente per farsi un’idea. E quelle erano ragazze folli di felicità. Probabilmente stavano andando in vacanza, magari per la prima volta senza genitori.
Spesso vedo persone che litigano, madri che si scapicollano verso il sedile posteriore per impedire che i figli si uccidano, che il neonato si strozzi, che il cane si butti dal finestrino. Una volta un uomo, seduto nel posto del passeggero, piangeva. Singhiozzava disperato, con la testa tra le mani. Mi ha fatto male. Empatia, suppongo. Ma la cosa che mi piace di più è quando li vedo attenti, in ascolto. Allora, dall’espressione, dal dondolio della testa a un ritmo che non sento, ma posso intuire, immagino il tipo di musica che ascoltano. Certo, quando si dimenano come pazzi, facendo smorfie assurde e gesti inequivocabili, stanno imitando il chitarrista scatenato di un complesso hard rock: troppo facile.
Il bello è capire dal poco. Da una mano che solfeggia in quattro tempi o fa snap con pollice e medio. Da un accompagnare il ritmo muovendo su e giù la testa, oppure a destra e sinistra. Morbido o rapido. Una volta è stato molto bello. Lei aveva lunghi capelli neri e teneva il capo abbandonato contro il poggiatesta, ad occhi chiusi. La sua mano delicata mimava la presa di un archetto. Ma in basso, verso la vita. Ergo: un violoncello. Il tempo che aveva scelto, il raccoglimento rapito con cui eseguiva il gesto di suonare e soprattutto quel rovesciare la testa indietro in un moto di estasi suprema fugavano qualsiasi dubbio: non poteva che essere Bach. Il primo movimento della divina suite N.1 per solo violoncello, direi.
Un’altra volta ho assistito in diretta a una proposta di matrimonio. La ragazza, che sembrava davvero troppo giovane, ha aperto un piccolissimo astuccio che conteneva un anello. Siccome teneva la testa china, non sono riuscito a scorgere la sua espressione, ma l’ho percepita tutta in quel suo rimanere immobile come una statua. Folgorata da quell’eccessivo brillare. Annichilita dalla sorpresa. Anche perché, dài! Ma come ti viene in mente di fare una proposta per la vita nell’abitacolo di un’automobile, mentre stai guidando? Cos’è?… Non hai tempo di portarla al ristorante e vuoi fare il trasgressivo con il mezzo più trito del mondo? Oppure pensi che i tuoi capelli (troppo) brizzolati s’intonino bene con l’asfalto della strada? Non ho dovuto sforzarmi di immaginare una colonna sonora per questo breve reality di cui intuisco la fine. Che altro può essere se non il più vuoto dei silenzi? Un silenzio opaco, senza poesia. Che presto lui si sarebbe affannato a riempire di stronzate.
Ma sto divagando.
Un giorno, nella macchina che mi sorpassava lentamente, non dovevano esserci né musica né silenzio. Piuttosto rumori. Il passeggero gesticolava furiosamente, a intermittenza. Come se aspettasse una risposta tra uno scoppio d’ira e l’altro. Quando questa arrivava, lui prendeva a cazzotti il cruscotto, agitava le braccia, roteava l’indice prima di elevarlo al cielo. Sembrava una questione di principio a renderlo furioso. Quello che riuscivo a vedere del suo aspetto erano i capelli rossicci e un po’ arruffati, una polo verde bottiglia e un fisico tonico, palestrato. E poi una vena che gli pulsava sul collo e le mandibole serrate. Gli occhi erano coperti da un paio di occhiali scuri. Meglio così: dovevano essere iniettati di sangue, con le pupille piccolissime, due puntini.
Del guidatore non s’intuiva nulla. Nemmeno se fosse uomo o donna. A un certo punto, però, dovette non poterne più, perché l’automobile fece un balzo in avanti, schizzando lontano in pochi secondi. Era una bella macchina, con un’accelerazione potente e un colore particolare. Metallizzato, naturalmente. Assistere a una manifestazione di violenza mi toglie il respiro e mi lascia una specie di ombra alla bocca dello stomaco. Ho fatto a cazzotti una volta soltanto, con il mio migliore amico, che aveva detto una cattiveria sul conto di Daniela. Ma non mi piace alzare la voce, è sempre inutile.
Anche la mia musica va ascoltata a volume normale. Persino basso.
Quel giorno ho fatto proprio come adesso: mi sono concentrato sul pensiero della musica, per depistarmi. La voce di Daniela, poi, mi ha tenuto compagnia per alcuni chilometri, riempiendo l’abitacolo con la vibrazione profonda che sa restituirmi, ogni volta, tutte le certezze. Ero ancora al telefono con lei, quando mi parve di vedere l’automobile ferma in una piazzola d’emergenza. Ma ormai mancavano poche decine di chilometri a casa e ai miei cinquanta chili di felicità.
Mi venne una fame inarrestabile e mi fermai al primo autogrill. Feci una coda senza fine alle casse: la solita comitiva di tedeschi che aveva deciso di fermarsi proprio lì. Erano chiassosi e colorati. Ridevano, si strattonavano. Età media: sessanta e passa. Naturalmente non capivano un fico secco dell’unica lingua parlata dalla cassiera (l’italiano) e lei si agitava tra resti e scontrini, stoicamente decisa a non cadere preda di una meritatissima crisi isterica.
Fui felice di uscire dal bar.
Mi avviai alla piazzola sul retro dell’autogrill. Dopo una settimana di pioggia, il sole aveva ripreso a brillare in un cielo incredibilmente terso, così pensai di godermelo. Mangiai con la schiena appoggiata alla fiancata del camion, gli occhi chiusi e le mandibole che trituravano lentamente un panino a dir la verità piuttosto coriaceo. Poi mi spostai verso il cestino e, fatto il mio dovere, mi girai su me stesso per rientrare in cabina. Fu allora che la intuii con la coda dell’occhio. Da dove mi trovavo prima non l’avevo proprio notata, perché seminascosta dal muso di un tir: unica macchina della piazzola, occupata soltanto da altri due grossi bestioni, oltre il mio.
A quel punto, uno che sbircia nella vita degli altri non ce la fa a evitare un giretto in quella direzione, magari fingendo di andare verso le toilette. Uno come me passa vicino alla macchina e, con aria distratta, getta un’occhiata all’interno. E vede l’uomo aggressivo, solo, al suo posto, addormentato come un bambino. I capelli sempre un po’ arruffati, il capo leggermente reclinato e gli occhiali da sole. Pacificato dal sonno. Un sorriso e un omaggio al grande Totò: «Il sonno è una livella» diceva un suo verso, o no?… No. Non diceva proprio così.
Uno come me non si accontenta delle apparenze; altrimenti non comporrebbe. E allora guarda meglio la coperta appoggiata sulle gambe dell’uomo, a coprire pancia e stomaco. Strana coperta di lana spessa; troppo spessa per fine maggio. È così che scopre una chiazza rosso-bruno che fa capolino da una piega della stoffa. Una chiazza che potrebbe essere qualunque cosa, ma che a me non piace. Le mie nocche sul finestrino, producono un sordo toc toc, accompagnato da un vago senso di malessere. Non sto più sbirciando: sto invadendo pesantemente lo spazio altrui. Ora l’uomo si sveglierà e, dal momento che è un irascibile, mi manderà a quel paese o addirittura uscirà dalla macchina con intenzioni bellicose. Invece no. Rimane immobile nella stessa posizione.
Forse è sordo. Forse è sordomuto ed è per questo che prima ci stava dando dentro in modo un tantino teatrale. Le nocche vengono sostituite dai pugni chiusi e questo deve creare una vibrazione all’interno, perché la testa dell’uomo scivola di lato, verso il finestrino e gli occhiali da sole, evidentemente appoggiati male, gli cadono in grembo. I suoi occhi sono sbarrati da far paura e la chiazza, deduco, non è succo di pomodoro. Non è uno che muore d’infarto, questa specie di bronzo di Riace forse neanche trentenne. E nemmeno mi dà l’idea di uno che si spari nella pancia perché stanco di essere troppo aggressivo.
L’hanno fatto secco, cazzo!
Faccio un balzo all’indietro e mi precipito confusamente verso il camion. Mentre apro la portiera per avventarmi sul cellulare e telefonare a non so chi, dal fondo della piazzola vedo arrivare una figura. Non so come succeda. Fatto sta che, in una frazione di secondo, riacquisto compostezza e, con una lucidità di cui non ho mai dato prova, rifletto che, da dove mi trovo, non riuscirò a tenere sotto controllo l’auto. Così afferro il cellulare e, con lentezza e normalità del tutto forzate, mi dirigo verso la zona ombreggiata vicino al cestino, come uno che voglia farsi una telefonata in santa pace, prima di rimettersi in viaggio. Per sembrare più credibile, decido persino di tornare indietro a recuperare una cartina stradale, e finalmente riprendo posizione.
Nessuno si è accorto di nulla. I due camion parcheggiati sono vuoti, dunque la piazzola sarebbe deserta se non fosse per me e per la figura che avanza reggendo con la mano destra una tanica di benzina. Il lento e morbido incedere della figura non è certo quello di chi guida un camion. Inizio ad armeggiare con la cartina, voltandola in tutte le direzioni, poi passo alla tastiera del cellulare, dipingendomi sulla faccia un’espressione assorta e serissima. La mia testa china si alza di tanto in tanto, ma solo quel poco che basta per gettare un’occhiata oltre i pochi metri che mi separano dalla scena. Camminando tranquillamente, quasi al rallentee, la donna raggiunge la macchina, appoggia la tanica per terra e cerca le chiavi nella tasca della frusciante gonna a fiori. Senza guardare nell’abitacolo, apre lo sportellino e inizia delicatamente a versare la benzina nel serbatoio.
Concentrata sull’operazione, china leggermente in avanti schiena e testa. Non cerca nemmeno di scostare i lunghi capelli che le ricadono sul viso, lasciandoli fluttuare alla brezza leggera d’inizio estate. Poi posa la tanica vuota e si raddrizza. Come si accorgesse per la prima volta del sole, gli porge il viso, liberandosi dalla pesante chioma corvina con un piccolo scatto del lungo collo.
E se ne sta lì, a occhi chiusi, per pochi secondi. Che a me sono sufficienti.
Non dimentico mai le espressioni, perché amo metterle in musica. Quel gesto rapito, quell’estasi totale li avevo già visti sul viso di una donna che mimava la presa di un archetto.
Ascoltando la sublime suite per violoncello del divino Bach.